“Volevo vestirmi da solo, ma mi hanno detto:
“No, non abbiamo tempo, lascia fare a me!”
Mi ha reso triste.
Volevo mangiare da solo per la colazione, ma mi hanno detto: “No, metti troppo disordine, lascia fare a me!”
Mi ha frustrato.
Volevo camminare fino alla macchina e salire da solo, ma mi hanno detto: “No, dobbiamo andare lì, vieni tra le mie braccia.”
Mi ha fatto piangere.
Più tardi ho voluto giocare con i blocchi ma mi hanno detto “No, non così! Cosi ‘…” ho deciso che non volevo più giocare con i blocchi. Volevo giocare con una bambola che qualcun altro aveva, così l’ho presa, mi hanno detto: “No, non farlo, devi condividere”.
Non sono sicuro di quello che ho fatto, ma mi ha reso triste. Così ho pianto. Volevo un abbraccio, ma mi hanno detto: “Smettila di piangere, va tutto bene, va tutto bene, vai a giocare”.
Mi dicono che è il momento di riordinare, lo so perché qualcuno continua a dire: “Metti via i giocattoli!”
Non so come fare, aspetto che qualcuno mi mostri… “Che stai facendo? Perché stai lì impalato? Raccogli i tuoi giocattoli!…”
Non avevo il diritto di vestirmi da solo per andare dove dovevo andare, ma ora mi chiedono di raccogliere e riordinare cose…
Non sono sicuro di cosa fare. Qualcuno potrebbe mostrarmi come farlo? Da dove cominciare? Dove mettere queste cose? Sento molte parole, ma non capisco quello che mi viene chiesto. Ho paura e non mi muovo.
Mi stendo per terra e piango.
Al momento del pranzo volevo prendere il tempo di usare le posate, il bicchiere, l’asciugamano, ma mi hanno pulito la bocca, “Bevi questo!…Lascia fare a me, sei troppo piccolo”.
Mi ha fatto sentire piccolo.
Ho provato a mangiare il cibo davanti a me, ma non ho fatto bene. “Sbrigati a finire!”.
Mi ha fatto venire voglia di gettare via le cose e piangere.
Non posso scendere dal tavolo perché nessuno mi lascia… perché sono troppo piccolo e non ci riesco.
Ho fame e sono frustrato e triste.
Sono stanco e ho bisogno di qualcuno che mi consoli.
Non mi sento al sicuro o sotto controllo.
Questo mi spaventa. Piango ancora di più.
Nessuno tiene conto di quello che provo. Mi parlano di capricci ma le cose che provo dentro sono più forti di me!
Tuttavia dovrei sapere come “condividere”, “ascoltare” o “aspettare un minuto”?
Dovrei sapere cosa dire e come comportarmi o gestire le mie emozioni. Ci si aspetta che io stia seduto tranquillamente o sappia che se lancio qualcosa si romperà… ma non conosco queste cose.
Non sono autorizzato ad esercitare le mie abilità di camminare, spingere, tirare, abbottonarsi, versare, servire, arrampicarsi, correre, lanciare o fare cose che potrei fare, che il mio corpo ha voglia di provare.
Le cose che mi interessano e mi rendono curioso, sono le cose che non sono autorizzato a fare!
Non sono così terribile…
Sono frustrato. Sono nervoso, stressato, sopraffatto e confuso. Ho spesso bisogno di un abbraccio.
Ho 2 anni, 2 anni e mezzo, 3 anni…
Ascoltami e insegnami a crescere.”

*Testo in inglese di un autore sconosciuto tradotto da Deborah Cohen-Tenoudji

Leggere queste parole – che potrebbero uscire dalla mente e dal cuore di un qualsiasi bambino piccolo – dovrebbe farci fermare. Riflettere. Perché troppo spesso, quando pensiamo ai bambini, ci dimentichiamo una verità fondamentale: sono persone intere, non progetti da completare.
Siamo abituati a pensare che l’infanzia sia una fase felice, semplice, priva di problemi. “Beato te che sei piccolo”, “Non hai nulla di cui preoccuparti”. Ma è davvero così?

In ogni giornata, anche apparentemente semplice, un bambino può vivere un turbine di emozioni: gioia, frustrazione, paura, entusiasmo, gelosia, tristezza. Un caos interiore che si manifesta in pianti improvvisi, corse sfrenate, risate isteriche, urla disperate. Non sono capricci. Non è sfida. È vita emotiva piena in un corpo e in una mente che stanno imparando tutto per la prima volta.
Se noi adulti, con anni di esperienza e strumenti razionali a disposizione, fatichiamo a gestire stress, frustrazione o ansia, immaginiamo come può sentirsi un bambino che viene interrotto mentre gioca, obbligato a stare fermo, o che non capisce perché qualcosa che lo incuriosisce gli viene vietata?

Spesso leggiamo il comportamento dei bambini come “capriccioso”, “provocatorio”, “viziato”. Ma ogni reazione, anche quella che ci esaspera, è una forma di comunicazione. Dietro ci può essere la stanchezza, la fame, il bisogno di contatto, il desiderio di esplorare, o semplicemente la difficoltà di dare un nome a ciò che si prova.
Eppure, in molti contesti educativi e familiari, il vissuto emotivo del bambino viene trascurato, minimizzato, se non addirittura negato. Frasi come “non piangere per una sciocchezza”, “non è niente, smettila di fare i capricci”, o “non hai motivo per essere arrabbiato” sono tristemente comuni e riflettono un’abitudine radicata: quella di misurare le emozioni del bambino attraverso il metro dell’adulto.

Perché le emozioni dei bambini vengono minimizzate?
Ci sono diversi motivi per cui l’adulto tende a non dare spazio alle emozioni infantili:

  1. Disagio personale: un genitore o educatore può sentirsi impotente o a disagio davanti al pianto o alla rabbia di un bambino, e quindi tende a “zittirli” più per autocontenimento che per reale aiuto al bambino.
  2. Giudizio adulto: spesso l’adulto valuta la situazione da un punto di vista razionale e maturo, e giudica le reazioni del bambino come esagerate o immotivate (“sta piangendo per un gioco rotto”).
  3. Condizionamenti culturali: molte generazioni sono cresciute con l’idea che mostrare emozioni sia segno di debolezza o di maleducazione, e questo modello viene inconsciamente trasmesso.
  4. Fretta e mancanza di tempo: nella quotidianità frenetica, fermarsi ad accogliere un’emozione può sembrare un lusso. Ma è un lusso necessario.

“Ascoltami e insegnami a crescere”, dice quel bambino immaginario.
Che cosa possiamo fare, allora? 

  • Fermarci ad ascoltare, anche se non ha le parole giuste.
  • Osservare, prima di giudicare. Cosa ci sta comunicando quel comportamento?
  • Accogliere le emozioni, anche le più scomode. La rabbia, la tristezza, la paura: non sono difetti. Sono opportunità di connessione.
  • Offrire contenimento, non punizione.
  • Ricordare che siamo modelli: il nostro modo di gestire le emozioni è ciò che insegniamo, molto più delle parole.

Il bambino non nasce con un dizionario emotivo in mano. L’educazione emozionale è una responsabilità adulta. Il bambino non sa che quello che sente alla pancia si chiama ansia, o che quella stretta al petto è tristezza. L’adulto ha il compito di accompagnarlo in questo percorso di alfabetizzazione emotiva, che è alla base della sua salute mentale, della sua empatia, della sua capacità relazionale futura.
Come Educare alle emozioni? 

  • Legittimare il sentimento: “capisco che sei triste”, anche se la causa ci pare irrilevante, perchè dal suo punto di vista non lo è e se mettessimo la sua difficoltà in una situazione “adulta”, lo capiremmo. Ad esempio: non vuole condividere i suoi giochi al parco. Per caso voi posate la borsa e lasciate che degli sconosciuti mettano le mani dentro e prendano ciò che vogliono pur sapendo che ve lo restituiranno, presumibilmente intatto?
  • Nominare l’emozione: “sei deluso perché non è andata come volevi”.
  • Non correggere l’emozione, ma il comportamento: è importante distinguere il sentire dal fare. Arrabbiarsi è lecito, ma non si può picchiare.
  • Essere modello: un adulto che parla delle proprie emozioni con consapevolezza e rispetto, trasmette un linguaggio emotivo positivo.

Spunti di riflessione per educatori e genitori

Spesso i genitori sono stati cresciuti da adulti che non erano stati a loro volta abituati alle emozioni, al sentire cosa succede all’interno, ma a preoccuparsi soltanto di quello che ci sta intorno. L’educazione emozionale è stata trascurata per moltissimo tempo, perchè non ritenuta indispensabile per lo sviluppo di un adulto sano, equilibrato e perché no, anche di successo. Ora anche le aziende ricercano personale con capacità emotive che siano un carattere distintivo della persona, per cui si è iniziato a dare credito ai pedagogisti che ne decantavano l’importanza. Molti adulti cercano di insegnare ai propri figli un’educazione (pensandola emozionale) legata al fare. Cosa si può fare e cosa no. Ma questa non è educazione emozionale. Essa tratta di emozioni, non di azioni. E dunque alcuni spunti di riflessione possono essere utili per capire di più te stesso/a e comprendere se stai facendo educazione emozionale o educazione del fare.

Quali sfumature di emozioni conosci? Le emozioni principali non sono molte, ma le secondarie e le sfumature di ognuna sono veramente tantissime. Sei sicuro di conoscere un’ampia gamma di vocaboli emotivi e il loro significato?

Come reagisci tu alle tue emozioni?
Se non accogliamo la nostra rabbia o la nostra tristezza, sarà difficile accettare quella del bambino.

Riesci a stare nel disagio (tuo o del tuo bambino) senza volerlo “risolvere” subito?

Ogni emozione ha un messaggio per te. Li sai riconoscere? Cosa porta la rabbia? Cosa ci suggerisce la paura?

“Ascoltami” ci dice quel bambino. Facciamolo davvero. Partendo dal rispetto per la sua complessità interiore, anche quando ancora non sa come mostrarcela.
Alle volte, il miglior aiuto è la presenza silenziosa. Un abbraccio. Uno sguardo empatico.

Anche la lettura può essere un buon canale per iniziare ad esplorare le emozioni insieme al tuo bambino e il libro contiene in sé la pozione potente del riconoscimento senza esposizione. Posso provarlo anche io quello che sto leggendo, anche se non lo dico. Posso scegliere se dirlo oppure no, ma in ogni caso saprò che posso provare quella emozione.

Un bambino che impara ad accettare e comprendere le proprie emozioni diventa un adulto più attento, amorevole, capace di costruire relazioni sane. Ma per arrivare lì, ha bisogno che qualcuno – prima di tutto – non abbia paura di ascoltare ciò che prova.

Educare alle emozioni è l’inizio di ogni buona educazione. Comincia ora. 

Manuela Griso