“Quando mi vedi solo, che gioco con un rametto, un filo d’erba o osservo le nuvole, non ti crucciare, non sono solo, sono con me stesso. Un me divertente, riflessivo, con cui mi piace stare. Non sono solo. Sto da solo. Non sono triste per questo, sono io che lo ricerco. E’ uno stare con me stesso che mi permette di ascoltarmi, di esplorare il mondo, di analizzare, sentire… “

Troppo spesso l’adulto presume che lo stare in disparte di un bambino all’interno di un gruppo sia indice di un problema. Difficoltà sociale od emotiva, ma in ogni caso, sintomo di un qualcosa che non va . In realtà, l’accezione negativa alla solitudine la diamo noi adulti e spesso in modo frettoloso parliamo di “asocialità”. Gli adulti spesso non sono in grado di stare con sè stessi e per questo hanno BISOGNO degli altri. Da questo paradigma culturale nascono le convinzioni che lo stare da soli, a prescindere dal fatto che sia o meno una libera scelta, non sia mai sinonimo di Ben-Essere, ma sempre di Mal-Essere.

Dice Wikipedia: “La solitudine è una condizione e un sentimento umano nei quali l’individuo si isola per scelta propria (se di indole solitaria), per vicende personali e accidentali di vita, o perché isolato o ostracizzato dagli altri esseri umani, generando un rapporto (non sempre) privilegiato con se stesso.” 

Riflettendo…. Se pensiamo a quando da ragazzi si instauravano quei legami di amicizia molto forti, in cui si viveva quasi in simbiosi, quando finivano o quando non ci si poteva vedere, come ci sentivamo? Persi. Disconnessi da noi stessi. Questo perchè si creava una sorta di DIPENDENZA AFFETTIVA, tipica nelle storie d’amore, dove il bisogno dell’altro genera una sofferenza tale da paragonarla alla disintossicazione. Pensate invece ora a quanto sia importante drogarsi di se stessi. Conoscersi a fondo, sperimentarsi, sentirsi. Cercare l’altro non per bisogno, ma per scelta, quanto deve essere liberatorio? Per noi e per l’altro. Alcuni bambini sono così naturalmente, senza interferenza alcuna. E cosa fa l’adulto? Lo crede sbagliato, lo etichetta, cerca di deviarlo per farlo entrare in relazione costante con i pari, pensando di aiutare il proprio bambino o alunno in realtà si crea un danno enorme.

Sicuramente è necessario partire dall’osservazione del bambino o della bambina. Quando si isola? Per quanto tempo? Quali emozioni trasmette il suo corpo? Com’è il suo viso? Se ci avviciniamo cosa prova? E’ assente o presente? Partecipa ad attività di gruppo? Come si relaziona con gli altri? Quali emozione esprime con maggiore frequenza? Piange? Ride? Gioca o sta fermo? Osserva gli altri o sta nel suo mondo interiore? Fantastica o resta su un piano reale? Gli altri lo cercano? Con l’adulto che relazione sviluppa? Queste e moltissime altre domande possono fare da sfondo all’occhio che osserva e dovranno essere rielaborate all’interno del contesto ambientale famigliare e scolastico in cui il bambino vive, prima di poter valutare se la solitudine di cui si accerchia sia utile al suo sano sviluppo o stia diventando un impedimento.

L’interesse di cui sono prede certi bambini, risulta essere troppo per garantirne uno sviluppo sereno. Se anni fa la problematica genitoriale più frequente riguardava il fatto che i bambini venissero lasciati a loro stessi, oggi affrontiamo la dinamica opposta: il bambino iper osservato e che se non rispetta la “tabella di marcia” che il genitore ritiene idonea, egli viene snaturato, defraudato della sua identità tramite il senso di colpa e l’inadeguatezza che legge negli occhi dell’adulto.

L’attenzione alla solitudine e allo spazio che ha nella vita dei bambini si è alzata sicuramente e necessariamente negli ultimi due anni. La pandemia da Covid-19 ha impedito i rapporti sociali, la permanenza a scuola, le visite ai famigliari. Ci ha isolati. Questo ha generato una forte pressione psicologica ed una accelerata ancor più importante verso l’equazione solitudine=malessere. Se c’è una cosa però che possiamo aver appreso in questo delicato periodo è anche la capacità di sentirsi vicini pur essendo fisicamente lontani. Questo significa che pur stando isolati, un filo che ci unisce lo abbiamo sempre, se lo desideriamo. Sta qui la grande ricerca della verità. La libera scelta di ognuno di noi e la comprensione nonchè accettazione e fiducia che l’adulto ha , del e nel , bambino che ha messo al mondo. Ogni bambino è competente. Sa quello che è meglio per lui, per il suo sviluppo. Restando con occhio rivelatore, poniamoci in ascolto, depuriamoci dalle equazioni impure e meditiamo sulle intenzioni e le percezioni. La realtà viene filtrata dal nostro vissuto, per cui più siamo liberi da preconcetti, più possiamo sostenere realmente la vita dei nostri bambini.

Nel metodo Montessori il lavoro singolo è necessario alla formazione dell’individuo che in quanto essere unico e irripetibile, ha esigenze del tutto personali che lo guidano alla ricerca dell’attività atta a soddisfare il periodo sensitivo che sta vivendo. L’adulto può avere il ruolo di facilitatore e sostenitore della vita che si sta formando, solo se ripone fiducia nel bambino, se riesce a vederlo senza i suoi filtri, così com’è, nella sua interezza ed unicità, rispettandone la natura, permettendogli di mostrare sia i talenti che le difficoltà, per alimentare gli uni e lavorare sulle altre. E’ dunque comprensibile ora l’importanza del lavorìo individuale, concentrato e personale del bambino, che sta apprendendo le fattezze del mondo, ne sperimenta le leggi, studia le combinazioni e si pone domande a cui, scientificamente, proverà a dare risposta se gliene viene data la possibilità.

immagine de “Il Mondo di Anya”

Pensate dunque se è così fondamentale la solitudine per apprendere ciò che è esterno a noi, quanto sia necessaria per sentire ciò che accade DENTRO di noi. Le emozioni, le sensazioni, i sentimenti, le domande, i dubbi, riconoscere i talenti, il proprio corpo e i suoi segnali. Vogliamo dunque noi intrometterci in questo magic moment tra il bambino e se stesso, pensando superficialmente che se non gioca sempre con qualcuno diventi asociale o sviluppi un’incapacità relazionale?

La riflessione nasce dunque spontanea e forse, la solitudine può iniziare ad essere vista anche come una forma di meditazione necessaria all’equilibrio e all’armonia con se stessi.

 

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